Borges trent’anni dopo. Invito alla rilettura di un “classico”.
Libero dalla memoria e dalla speranza, illimitato, astratto, quasi futuro, a trent’anni dalla sua morte Jorge Luis Borges è ormai un classico. Anche noi che amiamo definirci borgesiani, che ci siamo gelosamente spartiti, come dei ladri, il flusso delle sue notti e dei suoi sogni, senza averne mai abbastanza, ci siamo rassegnati a utilizzare questo termine. Classico. Lo abbiamo scritto due volte, con la consapevolezza che – come lo stesso maestro insegnava – l’unico modo per appartenere a una tradizione letteraria non è esserle fedele, ma tradirla. È un’idea di letteratura non come statica collezione di reliquie, ma come processo sempre vivo, che si alimenta costitutivamente nel gioco della ricezione (“Un volume in sé non è un fatto estetico, è un oggetto fisico tra altri; il fatto estetico può verificarsi solo quando esso viene scritto o letto”). E se ogni traditio implica in sé una tradutio e un tradimento, non esiste forse miglior modo di leggere Borges che rileggerlo come classico.
Questo pomeriggio di metà giugno 2016, noi che ci siamo rassegnati a mettere in dubbio l’indefinita durata di Voltaire o di Shakespeare, crediamo fermamente in quella di Borges. Perché proprio Borges? Non tenteremo goffamente, in un pugno di righe, di giustificare quest’affermazione lodando la forza della sua immaginazione o la maestria del suo stile, né tantomeno elogiandone l’attualità o la presunta postmodernità. Classico non è, lo sappiamo, un’opera che necessariamente possiede dei meriti particolari, ma è “un testo che le generazioni degli uomini, spinte da diverse ragioni, leggono con prevìo fervore e con misteriosa lealtà”; è quel libro che “si è deciso di leggere come se nelle sue pagine tutto fosse deliberato, fatale, profondo come il cosmo e capace di interpretazioni senza fine”. In che senso sarebbe quindi possibile e auspicabile – direi piuttosto inevitabile – rileggere Borges come un classico?
Emir Rodrìguez Monegal affermava che, il giorno in cui aprì per la prima volta un suo libro, per lui “morì la letteratura e iniziò Borges”. Rileggere Borges come un classico significa forse compiere l’operazione opposta: Borges come artefice non della fine di una certa letteratura, ma come sua rinascita. A differenza di altri mostri sacri della letteratura, l’opera borgesiana non è autoreferenziale, ma costitutivamente transitiva e relazionale; la sua lettura stimola l’istinto letterario, la fame e la sete di lettura. Ecco forse in cosa consiste il grande miracolo dell’opera di Borges e su cosa si fonda, trent’anni dopo, la sua immortalità: essere fedeli a Borges significa essere fedeli non a un’opera letteraria, ma alla letteratura stessa.
L’immagine della rinascita esprime perfettamente l’impressione di un miracolo che provai la prima volta che ho aperto le pagine di Finzioni. Nell’estate del 2006, vent’anni dopo la sua morte, rinacque in me il desiderio di leggere e volli ringraziare Borges con poche parole:
Rilettura de “L’altro”
Una qualche ora notturna. Davanti a me un fiume. È il fiume della mia valle – ma potrebbe essere il Tamigi o il Danubio – e mi invoca il gioco del tempo, sfumando il confine fra memoria e immaginazione, fra le visioni di un filosofo di Efeso e di un poeta di Buenos Aires. Quanti prima di me hanno già nuotato in questo stesso fiume?
Non ci vedevamo, eppure sentivamo la reciproca presenza e non potemmo fare a meno di voltarci; non potemmo fare a meno di riconoscerci. Fui io a parlare per primo.
A) L’hai poi restituito quel libro delle Mille e una notte?
B) È sempre là, sullo scaffale; non leggerai mai abbastanza quei racconti circolari (la sua voce mi sembrava talmente vicina da confondersi con la mia).
A) È là che leggerò questo racconto che ancora non conosco. Eppure già so che se questa notte e questo incontro sono sogni, ciascuno di noi crede di essere il sognatore. Chi di noi può decidere in ogni attimo di uccidere l’altro?
B) È vano domandarselo: come la vita e la morte coincidono nel medesimo iato, questo sogno e l’attimo del risveglio coincideranno. È per ora nostro compito accettare il sogno, come si accettano l’universo, e l’esistenza, e quel sentimento che nasce guardando negli occhi qualcuno, illudendoci in quello sguardo di non essere solo carne.
A) E se il sogno continuasse all’infinito?
B) Questo veramente non avrebbe senso. Forse questo è l’Inferno.
A) Penso che nel nostro destino ogni stravaganza sarebbe possibile, persino la perpetuosità dello spazio e del tempo; ma penso che crederci sarebbe folle ed inumano.
B) Queste parole sono mie, A. (mi sentii in colpa e restai in silenzio per qualche secondo; pensai che veramente avevo letto da qualche parte quelle parole; lui per saperlo doveva essere il lettore, o il libro) Viene un attimo nella vita di ognuno in cui ci si guarda dentro; alcuni fanno un poco più fatica, altri hanno perso la vista; eppure mi riconosco in te. Questo dialogo avviene e non avviene; se un giorno sarà, non sarà altro che una memoria dimenticata, o la pagina di un libro.
A) Se qualcuno ci ascoltasse penserebbe che non stiamo veramente parlando. Le nostre parole sembrano essere parte di un racconto scritto più che di un colloquio.
B) Forse è proprio ciò che è.
A) Affermi che sia solo un sogno? Anche se non possiamo vederci, il perché lo sappiamo entrambi: tu sei cieco ed io ho gli occhi chiusi. Credevo di averti riconosciuto, eppure ancora non comprendo: sei A o sei Jorge Luis Borges?
B) Stai leggendo un mio racconto, A; in questo attimo siamo la stessa cosa.
Perché non mangiare insetti? L’entomofagia da incubo kafkiano a rêverie
Articolo originale su MyFoody
In due precedenti post abbiamo avvicinato i sogni di alcuni grandi rêveur. Una “favola al telefono” di Gianni Rodari ci ha aiutato a visualizzare lo stretto rapporto simbolico fra l’atto del mangiare e quello del sognare in quanto atti di interiorizzazione del mondo esterno. Siamo persino riusciti a far bisticciare Immanuel Kant e Aimée Bender a proposito del valore erotico e politico – nel senso ampio di questi termini – del cibo, in quanto dispositivo simbolico in grado di unire e dividere, avvicinare e allontanare, segnare aperture e chiusure, limiti e confini. L’uomo è un mangiatore sociale prima ancora che biologico, infatti non tutto ciò che è digeribile è culturalmente mangiabile; non è sufficiente che un alimento sia commestibile per farlo rientrare nella lista dei cibi accettabili a tavola e sarebbe ingenuo pensare che il gusto sia solo una questione privata; al contrario è il prodotto di una costruzione collettiva e culturale, che finisce per rendere accettabili alcuni alimenti e ad escluderne altri (associandoli ad esempio a idee di impurità e sporcizia). Queste semplici considerazioni dovranno bastare a ricordarci la complessità della questione del gusto e come le nostre abitudini alimentari siano vincolate sia a un determinato sistema economico-produttivo che a un complesso ordine culturale-simbolico in continua trasformazione.
Un interessante spunto di riflessione a proposito di questo argomento viene del recente rinnovamento, da parte del Parlamento Europeo, della regolamentazione relativa al Novel Food, etichetta che comprende tutti quei prodotti alimentari non consumati “in maniera significativa” nel nostro continente, in quanto derivanti da tradizioni esterne o frutto di innovazione tecnologica. Si tratta della prima apertura ufficiale alla possibilità di legalizzare in Europa il consumo di determinati alimenti estranei alla nostra cucina, quali alghe e – soprattutto – insetti. Una decisione che ha avuto discreta risonanza nell’opinione pubblica, anche a seguito di alcune degustazioni di buffet e cocktail a base d’insetti organizzate nel corso degli ultimi mesi, ad esempio a Expo o al Fuorisalone di Milano. L’entomofagia, ossia il consumo di carne di insetto, è una pratica comune in varie culture, mentre continua a rimanere un tabù per il Vecchio Continente. Gli insetti cibo del futuro? Probabilmente, se di rivoluzione alimentare si potrà parlare, sarà rappresentata dalle applicazioni nel campo dell’industria mangimistica, mentre la gastronomia a base d’insetti resterà presumibilmente di nicchia nel mercato occidentale. In ogni caso, il lettore più curioso e meno schizzinoso può facilmente attingere a una vasta scelta di pubblicazioni, blog, libri, ricettari e farsi tentare da varie considerazioni, di ordine gastronomico, economico, ecologico, eccetera.
Naturalmente in questa sede non intendiamo soffermarci sulle ragioni dell’entomofagia. Rimanendo fedeli al nostro approccio estetico, ci limiteremo a sottolineare come, ancora una volta, questa battaglia alimentare dovrà essere combattuta con armi appartenenti all’estetica prima che alla gastronomia o all’etica: prima di rendere “ragionevole” il consumo di insetti bisognerà renderlo simbolicamente ed esteticamente accettabile. Il che non significa, naturalmente, semplicemente creare dei piatti a base di insetti visivamente gradevoli, ma trasformare la nostra stessa rappresentazione dell’insetto da incubo kafkiano a oggetto di rêverie. Dal punto di vista estetico la questione fondamentale non è “perché non mangiare insetti?” ma “è possibile estendere il nostro immaginario alimentare agli insetti?”.
“L’uomo è ciò che mangia”, affermava Feuerbach. Si tratta della sua frase più famosa, fraintendibile e abusata, nonché la citazione più scontata che ci si potrebbe attendere in un discorso sull’estetica del cibo; perciò abbiamo scelto di usufruirne solo al momento opportuno, in modo da non smarrirne lo spirito provocatorio e allo stesso tempo giocoso. Lasciamo parlare Feuerbach: “La teoria degli alimenti è di grande importanza etica e politica. I cibi si trasformano in sangue, il sangue in cuore e cervello; in materia di pensieri e sentimenti. L’alimento umano è il fondamento della cultura e del sentimento. […] L’uomo è ciò che mangia”. La citazione, nella sua interezza, ci aiuta a comprendere il reale proposito del filosofo, che non intende semplicemente valorizzare la sfera della corporeità e della sensibilità umana a discapito di quella spirituale, ma, al contrario, cerca di colmare quell’abisso teoretico fra dimensione materiale e spirituale, quella separazione schizofrenica fra corpo e anima, che è stato alla base della corruzione della tradizione filosofica occidentale. In questo senso l’affermazione di Feuerbach ci aiuta a riformulare la nostra questione: se l’estetica degli alimenti insegna che dimensione sensibile e spirituale non vanno slegate, se il cibo per il corpo deve rappresentare anche un cibo per l’anima, per poter assumere degli insetti nel nostro stomaco dobbiamo quindi farli prima accogliere dalla nostra anima. Dobbiamo accettare che, una volta ingeriti, gli insetti si trasformeranno materialmente e simbolicamente nel nostro sangue, il sangue nel nostro cuore e nel cervello, nella materia dei nostri pensieri e sentimenti. Solo quando saremo pronti a sopportare l’idea di questa metamorfosi potremo sostenere di aver trasformato l’insetto da incubo kafkiano a oggetto di rêverie.
Fonti storiche e letterarie ci testimoniano come l’impresa sia meno ostica di quanto potremmo temere. In Levitico 11, 22 Mosé si rivolge al popolo di Israele incoraggiandolo apertamente a mangiare gli insetti, o almeno – aggiunge per scrupolo – quelli che si nutrono di cibo puro: “Fra questi voi potete mangiare i seguenti: ogni specie di locuste, di cavallette, d’acridi e grilli”. Plinio registrava il fatto che durante la sua epoca le locuste venissero spesso mangiate dai Parti. Erodoto si soffermava sul sistema adottato dai Nasamoni per ridurre le locuste in polvere e cuocerle come focacce. Persino i ragni vengono da alcuni considerati delle prelibatezze, da friggere o da spalmare sul pane a mo’ di burro. Giovanni il Battista, nel deserto, se ne cibava abitualmente, insieme a locuste e a miele selvatico. La lista potrebbe allungarsi a dismisura, ma preferiamo concludere la nostra chiacchierata con un ultimo e agevole invito alla lettura: Why Not Eat Insects? è un delizioso testo ottocentesco di Vincent M. Holt, che meglio di ogni altro, da autentico rêveur, sa trasmetterci il gusto dei suoi esperimenti alimentari. Holt assicura che – una volta vinto il primo legittimo sussulto – sarà divertente conoscere quanti e quali insetti possono essere trattati in cucina, con la garanzia di scoprire sapori e profumi deliziosi. Con l’acquolina in bocca ci descrive ad esempio “il lepidottero dalle punte pelose, un bell’insetto in cui le ali posteriori hanno un magnifica tinta grigia, segnata da macchie rossicce e nere, e con le punte leggermente pelose, come dice il suo nome. È grazioso. Inoltre, concedetemi di osservare sottovoce, da orco, che il suo corpo, lungo un pollice, è grassoccio, rotondo e dolce”. Certo, ci sono insetti e insetti, ma – precisa Holt – “i miei sono tutti vegetariani, puliti, sani e saporiti come cibo e decisamente più attenti di noi a quello che mangiamo. Mentre sono sicurissimo che essi non si abbasserebbero mai a mangiare noi, sono altrettanto sicuro che, un giorno, dopo aver scoperto quanto sono buoni, noi saremo ben felici di cucinare e mangiare loro!”.
La Shoah fra memoria e oblio
Il fiume e la memoria
Ogni anno, in occasione della giornata della memoria, si propongono molti (ottimi, celebri) film per riflettere sul tema dell’Olocausto. Ho deciso di spendere qualche parola per il celebre Shoah di Claude Lanzmann, per la sua capacità di offrire una riflessione sulla memoria stessa e, non da ultimo, sulle potenzialità del mezzo cinematografico come dispositivo di memoria.
La sostanza della storia (pensiamo alla celebre definizione di Bloch) e del cinema (pensiamo a Deleuze) è il tempo. Shoah è una riflessione sulla storia e sul cinema che si pone nella storia e nel cinema, si fa esso stesso documento ed evento storico-cinematografico. In quanto riflessione sulla temporalità e sulla memoria, Shoah si costruisce col tempo, nel tempo: frutto di undici anni di ricerca (cinque solo per montare le trecentocinquanta ore di interviste), non è un film, è un fiume che si sviluppa man mano che raccoglie tracce e detriti, ricordi e miserie dei suoi testimoni. Non è un documentario che sfrutta immagini di repertorio e date oggettive, è un non-film dalla durata bergsoniana e bachelardiana (in cui le date e gli anni hanno poco valore), che per raccontare ha bisogno di suscitare immagini e ricordi. Sintomatica è – come sottolineato perfettamente da Ivelise Perniola in L’immagine spezzata – la scena iniziale: a tredici anni Simon Srebnik doveva attraversare tutti i giorni il villaggio di Chelmno, in compagnia dei suoi compagni incatenati e dei soldati delle SS, che lo obbligavano a cantare in virtù della sua voce melodiosa. Lanzmann, a sua volta, lo costringe a ricordare risalendo quello stesso fiume, come faceva allora, inscrivendo la propria voce nel luogo, cioè cantando la stessa canzone che cantava allora: un canto – paradossalmente – sulla nostalgia, sull’impossibilità di ritornare e sull’impossibilità di ricordare: “Una piccola casa bianca / mi resta nella memoria / Di questa piccola casa bianca / sogno ogni notte”. L’affiancamento di questa canzone e dell’immagine del fiume ci evoca una poesia di Borges:
Sono i fiumi
Siamo il tempo. Siamo la famosa
parabola di Eraclito l’Oscuro.
Siamo l’acqua, non il diamante duro,
che si perde, non quella che riposa.
Siamo il fiume e siamo anche quel greco
che si guarda nel fiume. Il suo riflesso
muta nell’acqua del cangiante specchio,
nel cristallo che muta come il fuoco.
Noi siamo il vano fiume prefissato,
dritto al suo mare. L’ombra l’ha accerchiato.
Tutto ci disse addio, tutto svanisce.
La memoria non conia più monete.
E tuttavia qualcosa c’è che resta
e tuttavia qualcosa c’è che geme.
Siamo fatti di questa sostanza mutevole (ossimoro) che si chiama tempo o memoria, sembra suggerire Borges. Ma la memoria non è qualcosa di innocuo, è qualcosa di invadente, che ferisce e fa male. Emblematica in questo senso la scena di Abraham, il parrucchiere di Tel Aviv che, a un certo punto, non riesce più a proseguire nel racconto di un ricordo tragico. Ma la macchina da presa di Lanzmann non stacca e, impietosa, continua a filmare in maniera invasiva il lungo momento di silenzio, finché Abraham non si decide a parlare, non si decide a ricordare. Tale è il ruolo di Lanzmann: anche se quasi sempre fuori campo, non è semplice regista o intervistatore, ma ha il compito di sollecitare la memoria (del testimone) e la com-passione (dello spettatore). Il film è un fiume di immagini e anche un fiume di parole, ma queste non commentano, né pongono quasi mai grandi interrogativi di tipo morale o filosofico (come fa dire allo storico Hilberg intervistato nel film: “Non ho mai cominciato dalle grandi domande perché temevo di ricevere delle risposte piccole”); la Memoria – a differenza della Ragione che cerca cause e risposte – insegue particolari secondari (“i treni a Treblinka spingevano o tiravano i vagoni dei deportati?”), perché di dettagli si nutre la memoria. Shoah è un non-film, è un evento che richiede la completa disposizione del testimone e una completa immersione da parte dello spettatore: lo spettatore che, ignaro, crede di assistere semplicemente un documentario, sta invece partecipando a un’esperienza di senso. Si sta immergendo in un fiume apparentemente innocuo, ma che lentamente lo avvolge, travolge e inghiotte; ne riemergerà ma, come insegna Eraclito, non sarà più se stesso.
Il lavoro di Lanzmann rappresenta un intenso sforzo di recupero della dimensione autentica della memoria, quella invasiva, pervasiva, immersiva, che suscita compassione e dolore. Sollecitare questa memoria – individuale e collettiva – è necessario, per evitare che la Shoah diventi soltanto una nozione storica astratta, distante, innocua, che non ha nulla a che vedere con noi e con il nostro presente; come se Auschwitz – simbolo dell’indifferenza dell’Europa di ieri – non si riflettesse nelle acque dell’attualità – quel Mediterraneo ormai simbolo delle miserie e dell’indifferenza dell’Europa di oggi.
Oblio e perdono
La complessa storia della Shoah ci ricorda come la storia e la memoria abbiamo tempi e ritmi diversi. Nei primi decenni del dopoguerra la tragedia del genocidio degli ebrei e le testimonianze dei suoi superstiti hanno avuto una risonanza marginale nei processi e nell’opinione pubblica: una lunga fase di gestazione e di rimozione del trauma, coincisa con gli anni della ricostruzione, della guerra fredda e i dibattiti sui regimi totalitari. La storia (historia rerum gestarum) della Shoah comincia, di fatto, almeno trent’anni dopo l’evento storico (res gestae) dei campi di concentramento, ossia nel momento in cui l’Olocausto viene spettacolarizzato: la trasmissione nelle televisioni nazionali del processo Eichmann (1961), il dibattito pubblico suscitato dalla guerra dei Sei Giorni (1967) in Israele e il successo in America del serial televisivo Holocaust (1979) rappresentano le tappe principali di questo lungo e tormentato processo che ha portato la Shoah da una condizione d’invisibilità/irrappresentabilità e silenzio/impronunciabilità a una condizione di onnipresenza e chiacchiericcio. Il ricordo della Shoah è stato sacralizzato e “feticizzato” (Geoffrey Hartman) fino a diventare una sorta di “religione civile” (Peter Novick) dell’Occidente, coi suoi spazi di memoria, i suoi dogmi (il “dovere della memoria”), le sue icone (i sopravvissuti, i testimoni, prima ignorati e ora celebrati e iconizzati.
Ecco perché, di fronte a questi due estremi – l’oblio e una memoria onnipresente – si propone una cura della memoria che insegni anche la cura dell’oblio, che inevitabilmente ogni ricordo porta con sé. La memoria è necessaria, ma non deve diventare onnipresente, pena la sua burocratizzazione, la sua dilatazione, il suo svuotamento di senso. Il ricordo è uno dispositivo delicato, che va sempre alternato all’oblio:
Abele e Caino s’incontrarono dopo la morte di Abele. Camminavano nel deserto e si riconobbero da lontano, perché erano ambedue molto alti. I fratelli sedettero in terra, accesero un fuoco e mangiarono. Tacevano, come fa la gente stanca quando declina il giorno. Nel cielo spuntava qualche stella, che non aveva ancora ricevuto il suo nome. Alla luce delle fiamme, Caino notò sulla fronte di Abele il segno della pietra e lasciando cadere il pane che stava per portare alla bocca chiese che gli fosse perdonato il suo delitto. Abele rispose: “Tu hai ucciso me, o io ho ucciso te? Non ricordo più: stiamo qui insieme come prima”. “Ora so che mi hai perdonato davvero” disse Caino “perché dimenticare è perdonare. Anch’io cercherò di scordare”.
Kant e l’inconfondibile tristezza della torta al limone
Articolo originale su MyFoody
“Un piatto di verdura con amore è meglio di un bue grasso con odio” (Prov 15,17)
Nel nostro primo articolo si è trattato dello stretto rapporto simbolico fra l’atto del mangiare e quello del sognare, in quanto atti di interiorizzazione del mondo esterno, e abbiamo sottolineato come lo stomaco rappresenti un importante organo di produzione dell’immaginario.
Per un’estetica del cibo
Articolo originale per MyFoody
Perché un’estetica del cibo? Cosa intendiamo con questa espressione?
Discutere criticamente di cibo non significa, evidentemente, parlare soltanto di nutrizione. Prima ancora che un bisogno fisico, vincolato a un sistema produttivo-economico-politico, il consumo di cibo rappresenta un evento psichico, sociale, culturale. La questione dello spreco alimentare può essere affrontata adeguatamente soltanto riflettendo sul problema della mercificazione e della spettacolarizzazione del cibo che investe la nostra quotidianità; eppure mi sembra che questa battaglia vada affrontata con armi concettuali appartenenti all’estetica prima ancora che all’etica. Prima di agire dobbiamo sognare.
Se sognare significasse semplicemente contemplare un’astrazione, questo progetto sarebbe contraddittorio. In questa sede non si vuole né si potrebbe certo offrire una storia simbolica delle culture alimentari. All’estetica, infatti, non interessa la dimensione pacifica e orizzontale della durata storica, ma quella inquieta e verticale dell’istante: il sognatore, qui ed ora, combatte la sua continua battaglia contro il senso comune, cercando di incarnare l’universale nel particolare. Da questo punto di vista l’approccio dell’estetica – in quanto “scienza” della sensibilità – sembra ideale per aiutarci a reimmaginare il nostro rapporto col cibo, custodendone la dimensione privata ed edonistica. Durante questo modesto percorso incroceremo, inevitabilmente, i sogni alimentari di grandi rêveur del mondo dell’arte, della filosofia, della letteratura, del cinema; ma ogni volta il lettore dovrà reimmaginare questi sogni, materializzarli, sensibilizzarli, facendoli dialogare con la propria esperienza, la propria memoria, i propri gusti e desideri.
Potremmo dire che mangiare e sognare sono, da un punto di vista simbolico, sinonimi, perché rappresentano due atti di interiorizzazione e di appropriazione (la “dominante di inghiottimento” di cui parla Gilbert Durand in Le strutture antropologiche dell’immaginario). Nel suo appropriarsi del mondo, nel suo farsi relazione con gli altri, coi luoghi, con le stagioni, il ventre diventa insomma un autentico organo di produzione dell’immaginario.
Mangiare e sognare il cibo sono senza dubbio due discipline difficili da equilibrare, ma non si tratta di attività appartenenti a due mondi differenti. L’estetica non ama le divisioni chirurgiche, non separeremo dunque il giorno dalla notte, la veglia dal sogno: ci sforzeremo di tenerle insieme, perché crediamo che la nostra vita abbia molto da guadagnare nel sognare mangiando e nel mangiare sognando. Proprio come fa Gianni Rodari in una delle sue Favole al telefono:
“Il pianeta x213, a quanto pare, è interamente commestibile: ogni cosa, lassù, può essere mangiata e digerita, anche l’asfalto della strada. Anche le montagne? Anche quelle. Gli abitanti di x 213 hanno già divorato intere catene alpine.
Uno, per esempio, fa una gita in bicicletta: gli viene fame, smonta e mangia la sella, o la pompa. I bambini sono ghiottissimi di campanelli.
La prima colazione si fa così: suona la sveglia, tu ti svegli, acchiappi la sveglia e la mangi in due bocconi”.
E voi quali pasti consumereste nella vostra “cucina spaziale”?
Kengiro Azuma e la rêverie della materia
Kengiro Azuma mi ha accolto nella sua casa con un sorriso. Mi saluterà con una pacca sulla spalla. Per un’ora e mezza, in uno studio caotico e accogliente, simile al laboratorio di un alchimista, siamo stati seduti uno di fronte all’altro su due scomodi sgabelli e abbiamo recitato la parte del Maestro e del discepolo: uno mescola parole e gesti misurati per evocare vite perdute, l’altro a bocca aperta abita quei mondi con la sua immaginazione. Azuma sa ormai di essere un ottimo attore, capace di interpretare il ruolo dell’anziano saggio intrattenendo la scena per novanta minuti.
Ama ripetere la vecchia storia di un giovane giapponese che condivideva il suo nome, le sue ossa, che credeva in un dio che abitava i nostri stessi spazi e le nostre stesse leggi; un dio inumano ma a misura d’uomo, al quale destinare le proprie preghiere e – nei casi più fortunati – il proprio sacrificio: l’assoluto è a portata di mano e si fa chiamare Hirohito. Bramoso d’infinito, il diciassettenne Kengiro Azuma lascia il Liceo per entrare come volontario nel reparto speciale “kamikaze” della Marina Militare Giapponese. Il resto del racconto si perde nell’oblio, ossia nelle trame della Storia.
Oggi, all’età di quasi novant’anni, lo stesso protagonista interpreta un’altra favola, quella di un Derzu Uzala sopravvissuto alla modernità e perfettamente integrato nella periferia milanese – quella Bovisa dove risiede ormai da tanto tempo che dovrebbero eleggerlo sindaco. Le sue labbra parlano di rispetto della natura e della lacrima che gli scende quando guarda l’albero – fuori dalla sua porta – resistere ogni giorno alla furia dei venti. Le sue opere, attorno a noi, echeggiano quelle parole, che accarezzano il bronzo e lo scavano, inserendosi nelle sue fratture e rivelando delle ferite. Il linguaggio è diverso ma la poesia è la stessa e canta quella tensione fra finito e infinito, fra visibile e invisibile, che penetra la materia e investe tutti i sensi, dalla mano fino all’orecchio, dal pieno al vuoto, dal ruvido al liscio, dal lucido all’opaco. Azuma oggi è il Maestro di Bovisa costretto a rievocare le proprie radici giapponesi per garantire la purezza di questo conflitto, di quest’incrocio fra Nord e Sud, fra Occidente e Oriente, di cui la sua arte vive.
Settant’anni dopo la “morte di dio”, con la dichiarazione della natura umana dell’imperatore Hirohito, la fede di Azuma è più forte che mai e continua ad avere bisogno di qualcosa di tangibile e di materiale. Una fede che coincide con l’arte e confina con un tratto “zen” disegnato quasi a caso su un foglio. Nel disordine del suo studio impolverato mi mostra un grosso volume e – parlando in maniera approssimativa, forse volutamente, per dimostrare l’importanza dell’imprecisione nell’arte e nella vita – con orgoglio mi confida che ogni giorno traccia su quei fogli un segno: “oggi non so cosa scrivere e scrivo semplicemente ‘vivere’”.
Oggi capisco che tutta la potenza del messaggio intellettuale e umano di Azuma è concentrata in quel gesto, in quel sottile luogo di incontro fra volontà e immaginazione – per utilizzare delle categorie estetiche tutte occidentali che tanto sarebbero piaciute a quel Gaston Bachelard che un giorno scrisse: “anche la mano ha i suoi sogni, aiuta a conoscere la materia nella sua intimità, aiuta pertanto a sognarla”. Ripenso alla mano di Azuma e capisco che le linee che ne percorrono la pelle sono state forgiate dall’energia e dalla pazienza dell’homo faber, dal suo martello, dal suo bronzo. Ripenso alle parole e ai segni, ognuno diverso dall’altro, presenti su quel volume e capisco che sono tutti sinonimi e significano “vivo”. Forse arriverà un giorno in cui Azuma dimenticherà di scrivere la sua frase e noi capiremo che, a partire da quell’istante, toccherà a noi, suoi discepoli, continuare a raccontare la sua storia.
Mercoledì 29 ottobre 2014 all’Università Cattolica di Milano ho partecipato all’organizzazione dell’evento “Il respiro della materia: incontro con Kengiro Azuma”, durante il quale l’artista, dialogando con alcuni critici, ha ripercorso le principali tappe della sua ricerca umana e intellettuale. Noi eravamo lì, per sentirlo ripetere ancora una volta la sua storia.
Corpi di Gloria. Spunti per un’analisi anatomica e alchemica
Da pochi mesi il piccolo gioiello letterario di una scrittrice esordiente sta invadendo gli scaffali delle librerie e le pagine dei siti internet, fino a essere premiato col Premio Rapallo Carrige Opera Prima 2014.
Già di primo impatto non è facile resistere al titolo evocativo e al richiamo della copertina, che ammicca in modo fulmineo e delicato come un malizioso segno della croce: sul basso il movimento orizzontale di un corpo femminile sublimato dalla luce solare che ne brucia la carne, lasciando soltanto un’ombra a coprire il viso; sullo sfondo, ma a occupare quasi l’intera pagina, lo slancio verticale di un corpo più inconsistente e astratto, un cielo “blu scuro come la notte”, che si riflette nello specchio dell’acqua con “l’oro delle stelle che brillano sul fondo”. La copertina e le prime righe già dicono tutto.
Non assaporavo un incipit tanto bello dalla lettura di Lo-li-ta. Lola, Dolly e Dolores sono le tre anime che racchiudono la creatura fiammeggiante di Nabokov. Senza bisogno di armarsi di allitterazioni o lollipop, a Giuliana Altamura basta un solo nome per evocare magicamente il doppio corpo della nostra protagonista, direttamente dall’immagine di copertina: Gloria è sdraiata, la sua carne è baciata da una luce verticale che misura la distanza fra la protagonista e quel cielo immenso che, come un delicato fil rouge, attraversa il racconto e verrà rievocato in maniera circolare nel finale.
Fin dalla prima immagine, Gloria è carne e luce ed è questa sua doppia natura a giustificare il richiamo alchemico del titolo: “il ‘corpo di gloria’ – spiega l’autrice in un’intervista – indica il fine di quel processo di purificazione che porta il corpo a liberarsi della materia, a manifestare la luce dello Spirito che lo compenetra”. È tale tensione fra il corpo “fisico” e quello “glorioso” a rappresentare il centro gravitazionale dell’intera narrazione. Con un pregevole equilibrio degli elementi– che Altamura maneggia levigando con cura ogni dialogo, ogni frase, ogni parola – Corpi di Gloria non si limita a ripetere una variante della “gioventù bruciata” o del “Meridione carico di problemi”, ma sfrutta i temi archetipici dell’adolescenza e del Sud come elementi, rispettivamente, temporali e spaziali per esprimere la crescita della protagonista. Il Sud e l’adolescenza sono le due realtà – forse ormai le due irrealtà, i due altrove – che la giovane autrice barese è riuscita a descrivere e sublimare per farne da cornice al ritratto di Gloria.
Lo stesso evento che – coup de théâtre – fornisce la scossa al meccanismo narrativo non sembra rappresentarne però il nucleo di senso. Nascosta fra i dialoghi e le avventure di droghe, teppismo e sesso facile descritte dalla quarta di copertina, ricorre una parola pronunciata sottovoce, ma che sembra urlata: “niente”. Come un sasso che, lanciato nell’acqua, viene subito riassorbito, come le finte effusioni fra Gloria e Cris – “nothing happens” (amava scrivere Janne Teller) a Riva Marina o nel suo cielo sempre indisponibile, ma qualcosa è forse cambiato nei nostri personaggi, nella loro percezione della distanza del cielo.
Nostra fragile prospettiva su questo frammento di mondo – dunque protagonista del nostro racconto – è Gloria silenziosa e luminosa, Gloria insensibile a ogni stimolo esterno e a ogni sapore, Gloria sempre sul punto di “brillare”. Il finale – senza troppo anticipare – è liberatorio, chiama in causa il fuoco, l’acqua e il cielo in una silenziosa esplosione alla Zabriskie Point.
Qui la mia intervista all’autrice dopo la premiazione al Rapallo Carige.
Preamboli per un’estetica del riposo. L’invasione delle chiocciole Aris alla Biennale di Venezia.
Il miglior modo per inaugurare silenziosamente questo Blog è comporre un modesto elogio della lentezza, del riposo. Perché il nostro intento non venga travisato è meglio precisare in cosa esso non vorrebbe consistere. Rifuggiamo le faticose industrie della ragione, non può cercare la costruzione di una morale della lentezza, frutto di una logica troppo razionalistica e retorica. Il ciclopismo vorrebbe offrire un’estetica della lentezza e del riposo, abbandonandosi ai doni gratuiti dell’immaginazione. Se la dimensione dei valori si presenta sempre all’interno una dialettica, valorizzare la lentezza rispetto alla velocità, il riposo rispetto al lavoro, significa semplicemente adeguarsi alla natura di questo Blog, al proposito di leggerezza che lo muove. Il riposo rappresenta per il ciclopismo uno dei sinonimi più sinceri di felicità, laddove la rapidità spaventa, disorienta, disperde. Non si deve tentare di sostenere le ragioni della lentezza – contrapponendosi ad esempio all’elogio della rapidità del Calvino delle lezioni americane – ma di liberarne la forza psichica, in quanto puro valore estetico.
In questo senso abbiamo scelto un’immagine semplice e precisa alla quale abbandonarci, in modo che una filosofia della lentezza e del riposo si offra da sé, decostruendo, da una parte, le folli convulsioni della vita quotidiana, nella sua rincorsa a un senso proiettato esclusivamente davanti a sé (dimentichi di sé), dall’altra l’accidia più triste, il niente come occupazione annichilente. La lentezza e il riposo autentici vivono di una dinamica complessa, sempre in tensione dialettica con l’altro polo valoriale, la fatica e la rapidità; perché il riposo, “come i baci, per essere dolce dev’essere rubato”[1].
Qual è dunque l’immagine adatta a rappresentare un’estetica della lentezza? Qual è il soggetto privilegiato per abitare la dimensione del riposo? Non la tartaruga troppo veloce di Zenone; non l’orso, il panda o il tarepanda, animali da zoo, sogni esotici o troppo grandi; non la remora, troppo spaventosa e simbolo ormai compromesso dagli abusi del linguaggio[2]; non la pipa troppo borghese di Jerome. La nostra inconsapevole compagna di viaggio sarà la chiocciola: sarebbe sufficiente leggere le pagine bachelardiane de La poétique de l’espace per comprendere quale potenza psichica possa emanare da questa semplice immagine. Come Melville tentò di ingrandire se stesso e il proprio stile di scrittura cantando le lodi della Balena-Leviatano, noi tenteremo di rimpicciolire e arrotondarci attorno al guscio della nostra chiocciola, scoprendola un simbolo non meno potente ‘di vita, di morte e di altre sciocchezze’.
Abbiamo atteso un anno, ma non invano: l’immagine della chiocciola è “corsa” in nostro aiuto nella forma dell’evento, tanto inatteso e invisibile quanto lo sono i piccoli miracoli. L’avvenimento è di quelli che rimangono nascosti fra le pieghe della Grande Storia, incuranti di pubblicità, immortali nell’oblio: non ne troverete tracce nelle cronache dei giornali, nelle elucubrazioni della riviste specializzate, forse neppure nei manuali scolastici. Tentare di narrare questa storia è già un tradimento al suo spirito: come l’Heidegger di Essere e tempo (sorriso) sentiamo mancarci gli strumenti, le forze e vorremmo abbandonare il nostro proposito per mancanza di un linguaggio adatto – un linguaggio del riposo appunto, una parola che sia silenzio, una memoria che sia oblio, un segno per l’assenza, qualcosa adatto a indicare un evento che si da nella forma del nascondimento. (Pausa) Lasciamo allora che sia l’evento a parlare e abbandoniamoci con esso ai piaceri dell’indugio, del ritardo, dell’attesa e del tempo circolare.
Il primo protagonista è Venezia, città che vive di incroci e contraddizioni, maestra e puttana, cultura e mercantilismo, acqua e terra, Oriente e Occidente, alba e tramonto, Venezia che da sempre affonda e muore, che da sempre risorge, gloria del proprio passato e illusione di un futuro.
Simbolo di questa penombra, della Venezia che si vende ai turisti, è la Biennale dell’arte, seconda protagonista. L’intera città è ricoperta di puntini, vuole vestirsi di un clima di libertà e anticonformismo, scivolando nell’estroversione a tutti i costi – esplosione di creatività e insieme passerella per artisti di ogni tipo. È il giorno dell’inaugurazione quando il sottoscritto decide di tentare un giro su questa giostra di colori cangianti, capelloni lunghi e borse firmate. Affronto l’acqua dei canali e quella dal cielo, finché incontro una manager finlandese completamente ubriaca, che attacca bottone e mi sfida a correre sotto la pioggia fino all’Arsenale. Qui, poeticamente, ci perdiamo nella folla, che si muove irrequieta e come a occhi chiusi, senza ascoltare gli adesivi e i manifesti attaccati ai muri, che urlano muti. Uno mi colpisce e mi fermo ad origliare: “ARIS-ALIAS invitano a non calpestare le lumache”.
Qui si presentano, insieme e quasi indistinti, il terzo e il quarto soggetto. In primo luogo il gruppo Aris, acronimo che suona lugubremente e festevolmente “Artisti risorti”, a designare la morte (addirittura con Certificato di dichiarazione di morte stilato nel 1995, con la performance Ex Nihilo Salus) e resurrezione del trio di artisti bresciani Martinotta-Cinini-Simoni[3]. In secondo luogo “Francesco”, nome fittizio del soggetto “Alias”, creatura e specchio degli Aris nella misura in cui pone in gioco la propria identità attraverso un’azione che si erge ad evento artistico.
Anche il quinto soggetto è un’identità collettiva: migliaia di chiocciole, siglate dagli “Aris” e da “Francesco”, vengono liberate all’interno dei Giardini della Biennale, in quanto “postini” che annuncino la “buona novella”, ossia il progetto Alias stesso.
Il sesto soggetto è chi, capace di porsi in ascolto, è già entrato a far parte del gioco. Percorro il Giardino della Biennale, diventato improvvisamente un labirinto, spazio per una caccia al tesoro. Una dopo l’altra, a decine, a centinaia, a migliaia, le chiocciole invadono silenziose i giardini, le piante, gli alberi – cercando la protezione, l’angolo e l’anfratto. Molti passanti interagiscono con l’evento, cogliendo le lumache o carezzandole, guardandosi in giro esterrefatti prima di riporle sul selciato. Pochi intuiscono di assistere a un piccolo miracolo. Era il 30 maggio e queste poche fotografie, queste poche parole, restano probabilmente l’unica testimonianza di quell’evento. A noi basta chiudere gli occhi per vedere le lumache Aris continuare la propria lenta e inesorabile invasione di Venezia, che ignara affonda coi propri peccati e che ignara è già stata redenta.
La natura concettuale di questo evento non disturba l’immediatezza della sua fruizione: l’immagine della chiocciola è talmente potente da rendere l’avvenimento esplosivo, coinvolgendoci in maniera del tutto naturale. La lenta invasione delle chiocciole ci colpisce in modo fulmineo. Indaghiamo dunque alcune dimensioni di senso di questa performance per meditare sulla potenza simbolica della chiocciola.
In primo luogo si deve sottolineare la sua natura essenzialmente invisibile, il suo cercare il nascondimento come una protezione del proprio senso. Come detto, la performance non è stata intesa fine a se stessa in senso impulsivo o sovversivo, ma al contrario ha voluto farsi annuncio di un progetto artistico debordante le logiche spettacolarizzanti (à la Debord) dell’arte-mercato: la chiocciola che abita il proprio guscio, la vita delle chiocciole che consiste nel proprio nascondimento, rappresenta allora il “postino” – ossia il veicolo simbolico – ideale per comunicare il messaggio “Alias” in quanto progetto artistico che si annuncia nel proprio nascondimento, si svela per proteggere il proprio senso!
Il significato più evidente del progetto Alias risiede in questa contraddizione, proprio come la forza simbolica della chiocciola nel proprio guscio vive della contraddizione. La vita della lumaca coincide con la formazione della propria conchiglia, in quanto frutto di un processo che parte dal bordo esterno per avvolgersi a elica verso l’interno, arrestandosi poi quando la chiocciola raggiunge la sua taglia massima: quale magia in questo organismo che si contorce per crescere, rotolando su se stesso per fabbricare una casa a propria misura, per darsi una misura. È la storia di una conquista della durezza da parte di un essere molle e bavoso, capace con la propria saliva di creare un rifugio che si ingrandisce a misura di chi ospita. La chiocciola abita quindi non solo una casa, come si abita un nido, bensì un labirinto solitario che accentua i valori di intimità, protezione e solitudine; una città-fortezza per un essere solo.
La performance Aris ha dunque dimostrato come l’immagine del guscio-casa, così antica, semplice e pacifica, può essere ancora capace di irradiare il proprio potere simbolico: quanti sognatori si saranno persi nel guscio di una lumaca, nei labirinti di questo minuscolo universo? Questo spazio ricurvo, che coincide col “mostro” che lo popola, rivitalizza l’immaginazione di chi sogna di abitarlo, poiché “soltanto il sognatore che si arrotonda […] conosce le semplici gioie del riposo disegnato” (Bachelard). Paradossalmente, nella sua perfezione onirica, la piccola conchiglia può essere un sogno troppo grande per l’essere umano.
Abitare questa immagine è vivere il ritmo della lentezza, del riposo e del tempo che gli è proprio, slegato dai meccanismi cronometrici. Il tempo nella forma del passato o del futuro non ci interessa perché non ci spaventa[4]. In questa dimensione di atemporalità, l’immagine della chiocciola si associa a quella della morte. Il guscio rappresentava per gli antichi un emblema dell’essere totale, simbiosi di corpo e anima: in questa idea il guscio diventa il corpo che racchiude l’organismo del mollusco, che a sua volta esprime l’anima senza la quale il guscio diventa inerte e morto. Il tranquillo essere della chiocciola racchiude inaspettatamente una forza immaginativa tale da ergersi addirittura a impetuoso simbolo di morte e, soprattutto, speranza di resurrezione: ecco, forse, il piccolo miracolo del progetto Alias degli Artisti Risorti – ultimo grido di speranza di quel che rimane dell’Arte, sollevato dalla penombra del tramonto veneziano.
[1] “I pensieri oziosi di un ozioso”, di Jerome Jerome. L’amato Bachelard – la stella forse maggiore all’interno della nostra costellazione di maestri – aveva sottolineato la natura penombrale del riposo autentico e attivo, da non confondere col mero riposo notturno e passivo. Già le meditazioni epistemologiche bachelardiane sulla temporalità (a volte leggendo La dialectique de la durée ci si scorda che è un’opera di epistemologia!) rappresentano un esplicito tentativo di costruire una “filosofia del riposo” sfruttando il concetto di “ritmoanalisi” di Pinheiro dos Santos. Il riposo possiede un dinamismo interno, un proprio ritmo, che si deve imparare ad ascoltare.
[2] Remora, in latino, significa ritardo e ostacolo e ha indicato il pesce che “trattiene le navi”, così descritto da Plinio: “C’è un piccolo pesce, che frequenta gli scogli, chiamato remora. Dicono che attaccandosi alla carena faccia andare le navi più lentamente. […] Ha la cattiva fama di servire a fatture amatorie, e di amuleto per ritardare il corso della giustizia in tribunale. Questi vizi li compensa con una sola qualità: quella di interrompere la mestruazione delle donne gravide, trattenendo il nascituro fino al momento del parto. Da mangiare non è buono. Alcuni dicono che abbia i piedi; ma Aristotele lo nega, dicendo che sono pinne”.
[3] Dall’Urlo Aris (1996) all’Autoinvito alla XLVII Biennale di Venezia (1997), ad Acqua Aris (1998), l’unione fra performance e installazioni continua col progetto Mito Aris, iniziato nel 2000, che valse, fra le altre esposizioni, quella alla Quadriennale di Roma (2005).
[4] “L’origine della paura è nel futuro, e chi si è affrancato dal futuro non ha più nulla da temere” (La lentezza di Kundera).