Rêveries

Yeah, well the days of me remembering are over, and the days of me forgetting have just begun.

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Codex Seraphinianus – pagina 69

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“Il mondo esiste per approdare a un libro” [Stéphane Étienne Mallarmé]

“Scrivere in un libro tutte le cose è lasciare una spada in mano a un bambino” [Clemente di Alessandria]

Pulcinellopedia

Breve esame dell’opera di Luigi Serafini 

Secondo il Vangelo di Giovanni, Cristo scrisse una sola volta alcune parole in terra e nessun uomo le lesse. Neppure la sabbia fu testimone delle parole di Pitagora, che, come risaputo, non ha lasciato nulla di scritto. La storia umana non ha una testimonianza diretta dei suoi più grandi profeti perché essi non hanno avuto il genio e il coraggio di Luigi Serafini. La sua opera, pur di breve enumerazione, è impareggiabile e inumana. Pregevoli le collaborazioni con Jules Renard e Francesco Colonna, dei quali ha illustrato, rispettivamente, le Histoires Naturelles e il celebre Hypnerotomachia Poliphi. Pulcinellopedia (Piccola) è un delizioso manuale anarchico di pedagogia, nel quale si insegna a librarsi come un colibrì dai banchi di scuola attraverso le piroette dell’inafferrabile maschera, intenta a sfuggire alle leggi del tempo e dello spazio. Spesso omesso dalla critica serafiniana, non stupisce che il cosiddetto Manoscritto Voynich sia stato, nel corso dei secoli, attribuito ai più svariati autori[1]: operazione acerba, che risente della propria composizione giovanile, può considerarsi un geniale esercizio preparatorio alla più immodesta e gloriosa delle imprese, il Codex SeraphinianusCopertina

L’idea di descrivere un universo immaginario tramite un linguaggio inventato è totalmente originale rispetto ai diversi tòpoi riscontrati nella tradizione letteraria antica. Gli studiosi ipotizzano che le prime bozze del Codex circolassero già attorno al IV secolo d.C., ma la prima stampa si ha solo nel 1981 grazie a Franco Maria Ricci, l’eclettico editore che, con un mix di coraggio e orgoglio, pubblica l’opera in un’edizione di lusso proponendone una glossa a Roland Barthes, Italo Calvino[2] e Jorge Luis Borges.

Borges lettore del Codex

L’accostamento borgesiano è inevitabile quanto paradossale. Geniale recensore di libri immaginari, l’Omero argentino avrebbe potuto redigere una prefazione dell’opera serafiniana ‘a occhi chiusi’, ma l’esistenza fattuale di un libro impossibile deve averlo impressionato al punto che preferì non nominare esplicitamente il Codex, pur evocandolo in alcuni dei suoi racconti più celebri. Borges aveva compreso come “non esista esercizio intellettuale che non sia inutile” e il suo Pierre Menard, già negli anni Trenta, “s’accinse a un’impresa complessissima e futile in partenza, dedicando i suoi scrupoli e le sue veglie a ripetere un’opera in un idioma estraneo”, arricchendo in tal modo, “forse senza volerlo”, “l’arte incerta e rudimentale della lettura”. Poiché Finzioni precede di cinquant’anni la prima pubblicazione del Codex è possibile congetturare che Borges sia entrato in possesso di una sua copia manoscritta, che poi – con l’inquietudine e la vertigine confessate ne Il Libro di Sabbia – non ebbe il coraggio di divulgare né di bruciare, decidendo di nasconderla fra gli scaffali della Biblioteca Nazionale di via México a Buenos Aires, della quale fu direttore per vent’anni. Più noti sono i parallelismi con Tlön, Uqbar, Orbis Tertius, dove è interessante notare come la creazione di un universo immaginario nasca dall’incrocio fra uno specchio e un’enciclopedia.

Elogio dello smarrimento Labirinto

L’incestuosa origine dell’opera, espressa dall’immagine borgesiana, è alla base della sua natura multiforme e proteiforme: come l’antica figura di Proteo, il Codex è una creatura magica, metamorfica e inafferrabile, che assume in primo luogo la forma del labirinto senza via d’uscita, nel quale il lettore è costitutivamente privato di ogni filo d’Arianna perché riassapori il piacere del disorientamento e dello smarrimento. Non stupisce che alcuni agiografi abbiano individuato in Serafini il bisnipote di quel Ts’ui Pen che fu “governatore dello Yunnan e che rinunziò al potere temporale per comporre un libro e un labirinto infiniti”: il Codex è la realizzazione singola di questo duplice delirio. Dal suo scriptorium romano di via sant’Andrea delle Fratte 30, come sotto l’influsso di una magia, vivendo per anni come chi sogna, Serafini ha costruito, senza il minimo errore o esitazione, un altrove che gli uomini hanno invano tentato di decifrare con un rigore da scacchisti [vedi questo traduttore], dimenticando che è stato composto secondo una logica da angeli[3].

Cura per l’immaginazione

Altro sommo liseur e rêveur, Gaston Bachelard condivideva con Borges l’inquietudine verso lo specchio “che scruta troppo severamente” e “interroga troppo a lungo”: nell’indagare la capacità dell’immaginazione di trovare ovunque (dalle costellazioni alle nuvole fino alle crepe sulle pareti[4]) occasioni per creare nuove immagini, l’autore de Le droit de rêver propone un accostamento al test di Rorschach, “strumento delicato, adatto per lavorare al limite tra coscienza e inconscio”. Il Codex Seraphinianus rappresenta evidentemente il più complesso sistema di Rorschach mai concepito e dunque un’educazione e una cura per la nostra immaginazione troppo malata di realtà. La rêverie serafiniana, in quanto fonction d’irréel, alterna sapientemente astrazione e descrizione minuziosa, riposo e lavoro, per generare non un mondo arbitrario, non un universo impossibile alla Escher, ma un cosmo dotato di leggi coerenti, forse non più paradossali e non meno irreali delle nostre.

Homo sapiens vs barbarus Scheletri

In un appello al lettore alla prima edizione dell’opera, Franco Maria Ricci scrisse: “Espugnato un convento, e soddisfatti i bisogni primari di cibo e saccheggio, qualche Unno o qualche barbaro ignorante di alfabeti sarà certo penetrato sino alla Biblioteca e là avrà sfogliato con meraviglia un codice miniato. Vorrei che il lettore sfogliasse il Codex Seraphinianus come quel guerriero”. Di fronte a questo magico specchio il lettore, homo sapiens per eccellenza, si riscopre ignorante, analfabeta e nudo fino alla carne e alle ossa, vedendo violata la propria intimità sino all’ultimo residuo di realtà: viene tradito e schernito proprio dallo strumento che era stato la sua forza e ora è debolezza, quel linguaggio che dopo averne cantato i trionfi adesso diventa emblema dei suoi limiti. A questo livello – espressione ultima dell’ossessione e dello scacco umano per la (non) conoscenza e per la (non) Verità – il Codex si erge a strumento di riscatto per il barbarus, che può fruire il libro proprio perché illeggibile e inutile. In tale delicato invito a far tornare bambina la nostra fruizione, attraverso questo libro di sogni che insegna a sognare, il lettore del Codex Seraphinianus, nella penombra della sua candela, può scoprirsi felice nel percepirsi soltanto sguardo e mano che sfoglia.

RosettaProust Proust (1)

Omaggio alla leggerezza FotoniCittà.png

Insieme all’innocenza della propria fruizione, il lettore del Codex riconquista la leggerezza. Prendendo forse spunto dal motto di Valéry – “il faut être léger comme l’oiseau, non comme la plume” – la rêverie serafiniana consiste in un’operazione di sottrazione di peso alla realtà e al linguaggio che la descrive. Una delle principali preoccupazioni di Serafini sembra quella di evitare che il lettore venga schiacciato dal peso dei corpi, coi loro atomi troppo pesanti, perciò si impegna subito a specificare che la materia del suo universo è composta da leggerissimi corpuscoli di colore, che vengono minuziosamente catalogati. Questi animaletti luminosi, bidimensionali e di forme irregolari, costituiscono probabilmente – come sottolineato da Italo Calvino – il principio vitale dell’universo serafiniano, accoppiandosi fra loro come note musicali per generare arcobaleni che poi divengono ponti solidi e intere città cangianti colore e consistenza insieme al proprio sostegno. Il parallelismo fra l’immaginazione serafiniana e la composizione musicale – evidenziata anche da Douglas Hofstadter nel saggio Metamagical Themas – ha trovato riscontro negli omaggi del dj americano Diplo e in quelli del coreografo francese Philippe Découflé, il quale, nei suoi tre balletti Codex, Decodex e Tricodex ha lasciato libero spazio alla propria immaginazione surreale per ipnotizzare e disorientare lo spettatore. Il Codex, questo omaggio alla leggerezza, assume anche la forma di una danza. 

Rito d’accoppiamento Caimano 2.pngCaimano 1.png

Nel loro danzare – che è anche rituale d’accoppiamento – i corpuscoli multicolore producono ibridi paradossali, incrociando linguaggio disegnato e immagini descrittive, morfologie anatomiche e meccaniche, umane e vegetali, zoologiche e minerali, eccetera. Tale accostamento fra elementi appartenenti a dimensioni diverse genera quel senso di disorientamento che è proprio di tutte le operazioni metamorfiche. L’immaginazione serafiniana rivela in tal senso la propria natura alchemica, in cui nulla è creato, ogni cosa è tras-formata, tutto è metamorfosi perché tutto è vitale e la morte non può far paura. Questo processo generativo è infinito perché si ripete costitutivamente in ogni atto di lettura, laddove la rêverie serafiniana e quella del lettore si incontrano, si intrecciano, generando inediti universi: la stessa fruizione assume dunque la forma di un atto d’accoppiamento, un’orgia onirica che coinvolge il nostro intero essere[5]. Il Codex Seraphinianus, questo libro di sogni in cui la mano ha sognato prima dello sguardo, è un invito erotico, un comunicare bellezza, un farsi relazione.

Pagina 69

Recentemente Serafini ha affermato che la dimensione più autentica del Codex, al giorno d’oggi, sarebbe quella interattiva e ha paragonato i blog a dei “campi di grilli che cantano, cioè lanciano segnali d’accoppiamento” [qui]. All’interno di questa immagine la nozione di rete non è evocata come mero luogo di scambio d’informazioni, bensì in quanto campo relazionale, generativo di nuove realtà. Sulla base di tali considerazioni, Questa Blog non ha trovato un modo più conveniente per accogliere l’invito erotico di Serafini che applicare al Codex Seraphinianus una variante dell’infallibile metodo esposto da McLuhan in The Gutenberg Galaxy, ossia recensire un libro aprendone soltanto la pagina 69. Il fallimento di un simile tentativo è dovuto a una serie di difficoltà insormontabili. Il primo e più naturale ostacolo – l’inesistenza della stessa pagina 69 – sembrava poter essere aggirato grazie ad alcune preziose ricerche che pretendevano di aver decifrato l’apparente anarchia dell’universo numerico serafiniano, rivelandone la fondazione su un sistema non decimale ma a base ventuno; eppure, poiché in questo cosmo qualsiasi legge deve fare i conti con l’anarchia, è stato constatato che tale dispositivo non si azzera ogni volta, ma – come un organismo birichino – riparte da un numero casuale prima di riprendere in ordine [qui]. Il secondo miracolo è un prolungamento del primo, perché conseguenza della natura inarrestabilmente metamorfica del Codex: chiunque ne possieda una copia potrà verificare come le pagine del libro non rimangano sempre identiche, ma cambino ogni volta che il libro viene chiuso. A volte la scrittura e le immagini mutano completamente e in modo palese, quasi sfrontato, in altri casi la trasformazione sembra riguardare semplicemente la posizione dei segni sul foglio – uno spostamento minimo, appena percettibile; è stato constatato, seguendone le tracce, che persino le coccinelle della copertina hanno modificato, di tanto in tanto, i propri percorsi[6]. Il Codex Seraphinianus non è mai uguale a se stesso.

Epilogo

Milano, gennaio 2014:
Luigi Serafini
Patrick Martinotta

Sono ormai trascorse diverse settimane dalla mia visita allo studio milanese di Luigi Serafini – l’antro del mago, probabile varco su una dimensione parallela. Al termine del lungo e piacevole incontro potevo vantare – con un orgoglio e un senso di vertigine che non riuscivo a spiegare – una dedica autografata dell’artista, naturalmente in linguaggio serafiniano, con l’unica eccezione del mio nome, che da quel momento entrava a far parte dello scheletro del Codex e in un certo senso gli apparteneva. Da quel giorno non ho più avuto il coraggio di aprire il libro a quella pagina. Come reagirei nello scoprire che il mio nome è scomparso o che si è mutato in altro? Una sera, rileggendo un racconto di Borges, ho scorso, quasi sovrappensiero, il passo che recita: “se lo spazio è infinito noi siamo in qualsiasi punto dello spazio, se il tempo è infinito siamo in qualsiasi punto del tempo”. Quella stessa notte ho sognato il mio nome impolverato su uno scaffale di Buenos Aires, mentre delle mani esitanti lo sfioravano senza comprenderlo e forse senza vederlo.



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[1] Per il Manoscritto Voynich sono state scomodate decine di personalità, fra cui il filosofo John Dee e l’astronomo, mago e falsario Edward Kelley. Nessuno più dubita invece, ormai, della composizione serafiniana delle illustrazioni dell’’Hypnerotomachia Poliphili, ubi humana omnia non nisi somnium esse docet. Atque obiter plurima scitu sane digna commemorat, opera di volta in volta attribuita, oltre che al frate Francesco Colonna, anche all’alchimista Jacobus Horcicki, Leon Battista Alberti, Giovanni Pico della Mirandola, Lorenzo de Medici, ecc.

[2] L’enciclopedia d’un visionario, in Orbis pictus, “FMR”, 1, marzo 1982, pp. 64-66.

[3] Nella tradizione occidentale gli angeli rappresentano la figura intermediaria per eccellenza, dunque un simbolo della funzione simbolica stessa. Secondo la testimonianza dello stesso Serafini il suo angelo ha assunto le sembianze di una gatta bianca che, durante la composizione del Codex, si addormentava sulle sue spalle, facendo penzolare la coda sul petto, talvolta a destra, talaltra a sinistra, a seconda dei suoi sogni; come nel Ruslan e Ludmilla di Puskin, se la coda andava a sinistra narrava racconti e se andava a destra mormorava canzoni. “Devo ammettere che fu la gatta bianca la vera autrice del Codex e non io, che mi sono sempre spacciato per tale, mentre ero un semplice esecutore manuale” – conclude Serafini.

[4] “Lo zodiaco è il test di Rorschach dell’umanità bambina”. Allo stesso modo un altro grande rêveur scriveva: “Chi non ha visto la carta del nuovo continente in qualche linea che appare su un soffitto?” (Codici di Leonardo da Vinci).

[5] Fra le varie testimonianze risulta particolarmente evocativo il racconto di una signora che afferma di aver sognato dettagliatamente il contenuto del Codex prima di aver saputo della sua esistenza [qui]. La vicenda ha assunto la solennità di dogma a seguito della bolla Ineffabilis Serafinus del 1854.

[6] “La prima coccinella si è mossa (graficamente) un pomeriggio di marzo c.a. a Roquebrune-Cap-Martin (Alpes-Maritimes). Il movimento di tutte le altre è stato confermato da coccinelle vere (bêtes à bon Dieu) un mese dopo a St-Adrien (Québec)”.